La società italiana nella metà degli anni settanta vista attraverso gli occhi di una adolescente cresciuta all’estero
Da bambina l’immagine che avevo dell’Italia era legata alle vacanze estive. Era la terra dei miei genitori e quella in cui ero nata, ma dato che la mia famiglia si era trasferita all’estero prima che compissi quattro anni non ne avevo alcun ricordo.
Il lavoro di mio padre ci portò prima in Francia, poi in Belgio e infine in Inghilterra, dove trascorsi quasi tutta la mia adolescenza.
La percezione che avevo del mio paese natio era alquanto confusa. Crescendo in un ambiente fortemente patriottico – direi persino sciovinista – come quello francese e inglese cercavo anch’io motivi per potermi vantare della mia patria; ne studiavo la storia e la geografia a scuola in maniera generica, come qualsiasi altra nazione straniera, e mi inorgoglivo quando i professori affrontavano il tema dell’arte e della cultura fiorente del Rinascimento o leggevano in classe estratti della Divina Commedia o del Principe di Machiavelli. Eravamo considerati i custodi e i divulgatori della cultura nel mondo e ne andavo fiera.
Tuttavia, la maggior parte dei connazionali che venivano a trovarci dall’Italia descrivevano una situazione di povertà e di miseria da “terzo mondo”, un paese dove imperversava il crimine, la corruzione e la violenza, e dicevano che eravamo fortunati a vivere in nazioni “civili” come la Francia e l’Inghilterra.
Eppure – e lo seppi solo molti anni dopo – a quei tempi l’Italia aveva compiuto un vero e proprio miracolo, era in pieno boom economico e cresceva a ritmi superiori di qualsiasi altra nazione al mondo.
Il termine mafia era associato al nostro Paese – benché ci fossero organizzazioni criminali ovunque in Europa – e incuteva terrore, eppure scoprì in seguito che il tasso di omicidi e crimini violenti era uno dei più bassi in Europa e lo è tuttora.
Ma allora, come adesso, l’impressione che gli italiani avevano del proprio Paese era nettamente peggiore della realtà.
Trascorrevamo solitamente le vacanze estive in Italia, visitando nonni e parenti a Perugia e a Napoli, poi ci trasferivamo in località turistiche, sulla costiera amalfitana o in Sardegna, soggiornando in strutture alberghiere con una prevalenza di ospiti stranieri. Quindi la mia conoscenza del Paese natio rimaneva estremamente vaga e superficiale, filtrata attraverso i resoconti critici degli abitanti che si lamentavano di tutto. I miei cugini invidiavano la mia vita all’estero, convinti che abitassi nell’Eden. Per loro, oltre frontiera, tutto era perfetto e idilliaco. E anche quando venivano a trovarci a Londra vedevano solo ciò che vedono i turisti, cioè la parte migliore; ammiravano le tipiche villette a schiera in periferia dai giardini curati senza sapere che la maggior parte erano prive di bagno e di riscaldamento all’interno. Non conoscevano la realtà della sanità scadente, delle scuole sovraffollate con classi di 45 alunni e oltre, non assistevano alle scorribande dei teppisti “skinheads” nelle borgate londinesi, dove non era consigliabile passeggiare dopo l’imbrunire, e non vedevano la moltitudine di adolescenti, maschi e femmine, riversi in strada ubriachi fradici il sabato sera. La loro visione idealizzata dell’Inghilterra veniva rafforzata dall’immagine di perfezione auto-imposta che tutti i cittadini, le autorità e le istituzioni sostenevano per salvaguardare la reputazione del loro paese, mettendone in risalto gli aspetti positivi e nascondendo vizi e difetti, fino a negare l’evidenza. Difficilmente, infatti, troverete un inglese – ma anche un francese, uno svedese o un tedesco – che si lamenta del proprio Paese con stranieri. In Inghilterra, i poveri vivevano la loro condizione con dignità, senza lagnarsi e senza esibirla per destare compassione, e i giornalisti non denunciavano continuamente disservizi e corruzione; i programmi televisivi erano tutti improntati all’ottimismo, a trasmettere fiducia e orgoglio ai cittadini, persuasi così di vivere nel “migliore dei mondi possibile”. Cosicché mentre in Italia i cittadini davano per scontato che all’estero i servizi fossero tutti più efficienti, in Francia e in Inghilterra, al contrario, non si lamentavano dei disservizi perché convinti che altrove fosse comunque molto peggio.
Per quanto mi riguarda, benché i miei genitori cercassero di dipingermi un ritratto positivo del nostro Paese, le voci critiche di chi ci viveva erano troppo unanimi per dubitare che l’Italia fosse davvero un paese disastrato. Inoltre, essendo entrambi rappresentanti di istituzioni italiane, la loro difesa della patria mi appariva una sorta di deformazione professionale. D’altronde, loro stessi iniziavano a dubitare e ammettevano che, mancando da diversi anni, forse la situazione era peggiorata rispetto a come la ricordavano loro. Cosicché quando mio padre annunciò che saremmo rientrati in Italia, piansi per giorni, convinta che avrei dovuto affrontare una vita di difficoltà, pericoli e stenti.
Ricordo che la prima cosa che mi colpì, nel tragitto che ci portava dall’aeroporto alla nostra nuova casa a Roma, fu la quantità di alberi che scorgevo lungo le strade. Dato che solitamente gli italiani venuti a trovarci a Londra avevano ammirato i parchi inglesi, lamentandosi della bassa percentuale di verde pro-capite nella capitale del nostro Paese, mi chiesi se avevano tenuto conto anche di tutte le piante che sorgevano lungo i viali e nei numerosi giardinetti della capitale.
Ben presto mi resi conto che la sensazione inebriante che avevo sperimentato durante le mie vacanze estive in Italia non era dovuta solo al mare, al sole e alla spensieratezza di non dover fare compiti e andare a scuola, ma si respirava nell’aria e faceva parte della realtà quotidiana. Gli abitanti però non sembravano avvedersene, impegnati come erano a lamentarsi di ogni inefficienza.
Eravamo circondati dalla bellezza, ovunque girassi lo sguardo vedevo scorci e vedute da mozzare il fiato, ma i romani sembravano notare solo le imperfezioni della loro città. Quel brontolio di massa incessante sembrava anche un modo per socializzare; qualcuno iniziava a protestare per un autobus in ritardo o per la coda all’ufficio postale e tutti si univano in coro per imprecare contro il governo e finivano col discutere come vecchi amici. Chi non aderiva alla rimostranza comune era visto come un estraneo e guardato persino con un certo sospetto, come fosse complice del “sistema”. Nei paesi in cui avevo vissuto se i cittadini notavano qualche disfunzione, si costituivano in comitati e si rivolgevano alle autorità competenti per porvi rimedio. In Italia, al contrario, queste lamentele non sfociavano quasi mai in azioni concrete e i malumori erano di breve durata, presto tutti tornavano a ridere e scherzare, soddisfatti dello sfogo momentaneo.
L’altra caratteristica che trovavo esilarante era la convinzione di buona parte dei giovani della mia età di vivere in un regime dittatoriale. Non avevo mai conosciuto un popolo così refrattario alle regole, offendere e diffamare rappresentanti del Governo era un esercizio praticato liberamente da cittadini e stampa, la mia impressione era quella di vivere in uno stato di completa anarchia, dove ciascuno si sentiva libero di infrangere le leggi e le norme di convivenza civile. Ma se qualcuno cercava di richiamarli all’ordine o li sanzionava, gli italiani gridavano alla dittatura e chiamavano le forze dell’ordine “servi del regime”.

A quei tempi – eravamo a metà degli anni settanta – la gioventù in Inghilterra era prevalentemente hippy, professavano pace e amore e protestavano pacificamente contro la guerra in Vietnam esibendo cartelli con slogan come “mettete fiori nei vostri cannoni” e “fate l’amore non la guerra”. In Italia, al contrario, i giovani sognavano di fare la rivoluzione, sul modello di quella cubana. Occupavano facoltà e aule dell’università, facevano cortei, lanciavano bombe molotov, studiavano strategie di combattimento credendosi tutti dei novelli Che Guevara. Era il loro eroe e divenne presto il mio, appesi poster con la sua immagine nella mia camera; lo trovavo così bello e sexy nella sua posa immortale di valoroso guerrigliero!

La società italiana era rigorosamente suddivisa in “destra” e “sinistra”; tutto quello che si diceva, si faceva, la musica che si ascoltava e il modo in cui ci si vestiva indicavano la propria collocazione politica. Il clima era esasperato e i militanti delle due fazioni rivali se le davano di santa ragione. Un mio amico belga, in visita a Roma, fu pestato a sangue perché indossava un loden blu e si trovava a Piazza Euclide, rispettivamente abbigliamento distintivo e quartier generale della gioventù di destra.
Una volta, alcuni studenti italiani mi invitarono ad andare con loro a nuotare nella piscina olimpionica del Foro Italico. Oggi non è più aperta al pubblico e ci si allenano solo gli atleti, ma all’epoca tutti potevano entrare pagando il biglietto. Osservai con ammirazione l’imponente struttura ed esclamai stupita :“Questo è un bellissimo centro sportivo, perché dite sempre che a Roma non ce ne sono?” Un silenzio gelido accolse le mie parole. “Ma cosa dici!? Non sai chi l’ha costruita?” incalzò uno di loro. “No, chi l’ha costruita?” chiesi incuriosita. “Mussolini” fu la riposta. “Ah, ma allora è vero che ha fatto anche qualcosa di buono!” replicai candidamente. Mi rivolsero sguardi indignati. “Ma che sei fascista!?! Queste cose non le devi dire!” esclamarono all’unisono. Quel giorno capii che gli italiani non si erano riconciliati con la loro storia, a differenza delle altre nazioni, e che certi argomenti sarebbero rimasti tabù chissà ancora per quanto tempo.

Io vivevo da aliena nella mia patria, osservando la società italiana con un misto di distacco, divertimento e stupore. Frequentavo l’ultimo anno del liceo francese e i miei amici erano quasi tutti stranieri o comunque italiani che avevano vissuto gran parte della loro vita in altri paesi, come me. Formavamo una entità a parte, con un linguaggio tutto nostro, ricavato dalla mescolanza di più idiomi, che capivamo solo noi. Alle feste ci scatenavamo al ritmo di James Brown e ballavano i lenti sulle note di Carlos Santana ma anche di Baglioni, le cui canzoni venivano snobbate dalla critica e dalla intellighenzia italiana perché giudicate troppo banali e melense.
Il gusto musicale italiano mi appariva del tutto incomprensibile. Quando avevo lasciato l’Inghilterra, i Beatles e i Doors erano già superati; ascoltavamo i Pink Floyd, i Rolling Stones, i Queen ma anche Tom Jones, Joni Mitchell, il blues e il country americano. Insomma vari generi purché fosse buona musica. In Italia, al contrario, i ragazzi della mia età prediligevano alcuni cantanti senza voce che recitavano monologhi politici con un sottofondo musicale di arpeggi strimpellati sulla chitarra. Erano definiti “cantautori”, si credevano novelli Bob Dylan, e venivano esaltati da pubblico e critica perché “impegnati”. I giovani, per essere identificati come “intellettuali di sinistra”, dovevano snobbare le canzoni “romantiche” o melodiche, e più in generale tutte quelle orecchiabili, cioè gradevoli all’udito, caratteristica considerata indice di superficialità. Venivano valorizzati prevalentemente testi di denuncia sociale, a scapito della melodia. Se qualcuno diceva di un brano “non mi piace” la risposta era “si vede che non l’hai capito, ora te lo spiego” come se la canzone non fosse una forma d’arte che, per sua definizione, trova la sua ragione d’essere nel godimento estetico e nelle emozioni che riesce a trasmettere.

Ovviamente, vi erano anche cantautori famosi che scrivevano canzoni molto belle, capaci di amalgamare la poesia del testo con una melodia gradevole e originale, e curavano l’arrangiamento musicale. Per questo motivo le loro canzoni sono ascoltate ancora oggi. Ma la maggior parte della produzione di cantautori improvvisati è caduta (per fortuna) nell’oblio.
La musica anglo-americana, anche datata, era ascoltata e imitata in tutte le sue forme. In generale, tutto ciò che era straniero era ammirato, e non solo in campo musicale. Per questo motivo molti cantanti e gruppi si davano nomi inglesi e imitavano lo stile anglo-americano, dando prova di un imbarazzante provincialismo che però non sembrava essere percepito come tale dal pubblico e dalla critica. Anzi, molti esperti si stupivano persino che tali artisti non avessero successo fuori dall’Italia, convinti che fossero in grado di competere con le rockstar d’oltre oceano.
Il tenore di vita della popolazione italiana era in generale buono e senz’altro superiore a quello degli abitanti delle nazioni in cui ero cresciuta, anche se quasi tutti erano convinti del contrario. Avevo visto servizi televisivi girati nelle case di famiglie italiane descritte come indigenti che esibivano mobili, vestiario e apparecchi domestici da fare invidia al più abbiente cittadino britannico. All’estero la vita era generalmente molto più spartana, la maggior parte della gente non sapeva nemmeno cosa fossero gli abiti “firmati”, gli alunni delle scuole indossavano l’uniforme uguale per tutti, poche famiglie possedevano un’auto o si potevano permettere una lavatrice in casa, di solito si recavano nelle lavanderie a gettoni per fare il bucato, andavano raramente al ristorante. Eppure nessuno si lamentava come in Italia.
Un altro aspetto che mi destava perplessità era il mito del posto fisso. Non riuscivo a comprendere bene cosa significasse poiché questa forma di contratto a vita non esiste in nessun altro paese. Se qualcuno avesse augurato ad un giovane inglese, belga o francese di essere assunto in un ente per restarci tutta la sua vita lavorativa fino alla pensione sarebbe inorridito. All’estero i lavoratori desiderano il cambiamento, ambiscono a rimettersi in gioco per migliorare la propria carriera e posizione economica, cambiando spesso società e persino paese. In Italia, invece, un impiego che non fosse per tutta la vita era considerato precario, praticamente un non-impiego. Chi trovava un lavoro, anche ben retribuito e con regolare contratto, in una ditta privata lo riteneva comunque provvisorio in attesa del famoso posto fisso in un ente pubblico che gli avrebbe garantito di non essere licenziabile per nessun motivo e di percepire uno stipendio anche senza lavorare.

Tutti attendevano che venisse bandito qualche concorso, unico modo per accedere alla carriera pubblica, e poi cercavano raccomandazioni a destra e a manca per realizzare il loro sogno, poiché girava voce che senza una “spinta” non si potevano superare gli esami. Politici, notabili e preti – la chiesa aveva un grande potere – promettevano sostegno a tutti ma aiutavano realmente solo pochi, tanto chi superava il concorso per propri meriti non lo avrebbe mai creduto e si sarebbe comunque mostrato riconoscente. Chi veniva respinto, infatti, attribuiva la sua bocciatura alla mancanza di un appoggio influente e nessuno ammetteva mai che potesse esistere qualcuno più bravo o più preparato. La convinzione generale era che chi superava il concorso era certamente raccomandato oppure aveva barato. Ma dato il gran numero di concorrenti ammessi nelle strutture pubbliche era evidente che non tutti potevano essere stati appoggiati.
Notavo una invidia sociale che non avevo mai osservato altrove. Tutti sparlavano di tutti. Tutti si sentivano defraudati di qualcosa che spettava loro di diritto e che qualcun altro aveva ottenuto al loro posto.
Gli italiani, in effetti, apparivano grandi amiconi ma in realtà erano molto diffidenti gli uni verso gli altri, convinti che tutti cercassero di imbrogliarli. I piccoli gesti di cortesia e di rispetto per il prossimo cui ero abituata, come tenere la porta aperta per chi segue, non gettare carte e rifiuti per strada, cedere il posto ai più anziani sull’autobus, non superare chi è in fila, venivano considerati da alcuni addirittura segno di stupidità e non esisteva riprovazione sociale per comportamenti scorretti e prepotenze varie. Scoprii che l’educazione civica non era una materia obbligatoria a scuola ma era lasciata alla scelta del docente, che se pure decideva di insegnarla finiva spesso col trasmettere messaggi contraddittori ai suoi allievi poiché, magari, era il primo a non rispettare le regole, e i bambini recepiscono l’esempio più che le parole.
Nessuno si sentiva parte di una comunità solidale e unita nel nostro paese. Il senso di appartenenza e di lealtà era limitato alla propria famiglia, al partito politico, alla squadra del cuore, ma se si pronunciava la parola patria, o peggio patriottismo, si veniva additati come fascisti. L’unità d’Italia era stata realizzata sulla carta ma non nel cuore delle persone.
Forse anche per questo, gli italiani erano molto consci dei loro diritti ma alquanto restii a riconoscersi dei doveri. Mi chiedevo se il famoso discorso di Kennedy, “non chiedetevi cosa può fare il paese per voi ma chiedetevi cosa potete fare voi per il vostro paese” avrebbe avuto presa sui cittadini italiani. Dal Governo si aspettavano tutto e gli attribuivano un ruolo quasi genitoriale; doveva provvedere ad ogni loro necessità e perdonare ogni loro manchevolezza. Pretendere il pagamento delle tasse era considerato un sopruso quindi evaderle era lecito, gli studenti pretendevano il sei politico, cioè di superare gli esami senza studiare, i lavoratori di ricevere uno stipendio senza lavorare.

L’ente pubblico era considerato terra da depredare e la sua operatività si reggeva sulla buona volontà di pochi impiegati chiamati dispregiativamente “Travet”. La definizione di travet nel dizionario italiano è ancora oggi la seguente: “Esponente del basso ceto impiegatizio, misero nell’aspetto, monotono nelle abitudini di vita e di lavoro, patetico nella scrupolosa osservanza del proprio dovere.” In pratica, in Italia mostrarsi seri e scrupolosi sul lavoro è considerato “patetico”! Questo la dice lunga sull’etica e sul senso del dovere che viene insegnato nelle scuole.
In ogni caso, non so se per merito della mia formazione o del mio carattere tendevo a notare più gli aspetti positivi di quelli negativi. Apprezzavo l’abilità e la competenza del nostro Paese nel preservare e valorizzare il nostro immenso patrimonio artistico, nel costruire autostrade tra le più difficili al mondo con tutti quei viadotti e le gallerie che bucavano le montagne, la capacità di stupire il mondo con la nostra creatività, la dedizione dei tanti italiani che svolgevano con abnegazione e serietà il loro compito al servizio della comunità, come medici, infermieri, insegnanti, forze dell’ordine, vigili del fuoco. La mia stima per loro cresceva con la consapevolezza che gli italiani davano per scontato il loro impegno ed erano pronti a infamarli e a trascinarli in tribunale al minimo errore.
La considerazione dei cittadini era ancora più ondivaga e instabile nei confronti degli esponenti del governo, prima osannati come salvatori della patria poi contestati e sospettati di essere incapaci o corrotti. La responsabilità di qualsiasi evento naturale o atmosferico imprevedibile, come inondazioni, incendi, terremoti era attribuita al governo di turno accusato di non aver previsto, prevenuto, arginato. Prima ancora di iniziare le operazioni di soccorso e contare le vittime, i magistrati aprivano una inchiesta per cercare il responsabile del disastro. Le stesse catastrofi accadevano in tutti i paesi del mondo, ma per gli italiani la forza della natura e la fatalità non esistevano, doveva esserci per forza un colpevole.
Di tutte le stranezze che avevo osservato quella che mi suscitava maggiore sgomento era l’ammirazione sviscerata che provavano quasi tutti i miei connazionali nei confronti di un non meglio identificato “estero”, associata a un senso di soggezione verso gli abitanti delle altre nazioni occidentali, specie del nord Europa. Dominava la convinzione che il nostro Paese fosse inferiore in ogni campo. A nulla era valso compiere il miracolo economico ed essere inclusi tra le sette potenze industriali mondiali, gli italiani si sentivano ancora il popolo di poveri agricoltori ed emigranti di inizio secolo, sfruttati e disprezzati. Erano convinti che agli occhi del mondo noi fossimo solo “pizza, mafia e mandolino”, mentre l’espressione all’epoca più spesso riferita all’Italia era “la dolce vita”, che rappresentava la nostra invidiata capacità di amare, gioire e godere dei piaceri e della bellezza in ogni sua forma. Eravamo ammirati per la cultura, la musica, il cinema, che a quei tempi aveva raggiunto la sua massima espressione con Fellini, Antonioni, Rossellini.
La colpa di questa errata percezione era dovuta in gran parte agli articoli di giornali nazionali e ai programmi televisivi.
A volte mi pareva che giornalisti e opinionisti provassero un piacere perverso nel diffondere e amplificare notizie negative e diffamanti sull’Italia. Mi chiedevo persino se fossero pagati da potenze straniere per denigrare la loro patria. Nelle nazioni in cui ero vissuta i cittadini si offendevano e si indignavano se qualcuno criticava qualsiasi aspetto della loro società. In Italia accadeva l’esatto contrario. Eravamo – e siamo – l’unico popolo che prende in giro se stesso, non per auto-ironia ma per il gusto masochistico dell’auto-flagellazione. Le stesse barzellette che imperversano da noi per deridere i carabinieri, in Belgio le raccontavano sugli olandesi, in Francia sui belgi, in Inghilterra sui danesi. Nessun popolo, infatti, prenderebbe mai in giro le proprie forze dell’ordine rischiando di inficiare la loro autorevolezza.

Mentre all’estero i media erano soliti mettere in evidenza le manchevolezze delle altre nazioni noi, attraverso la nostra stampa, ci auto-denunciavamo e auto-accusavamo. Gli articoli e i programmi televisivi erano bollettini di guerra, sembrava che il paese fosse preda di ogni tipo di violenza, corruzione, malversazione e criminalità; se non ci avessi vissuto, potendo constatare di persona quanto fossero esagerati, avrei probabilmente avuto qualche timore a visitarlo come turista.
Al contrario, quando parlavano di “estero” venivano evocati scenari idilliaci di perfezione sociale. Questa ammirazione, che giudicavo puerile e alquanto provinciale, era talmente radicata che, anche quando gli italiani si recavano in altre nazioni, sembravano notarne solo gli aspetti positivi ignorando quelli negativi, come se guardassero la realtà filtrata da uno stato di innamoramento. L’intero popolo italiano mi pareva affetto da un patologico complesso di inferiorità e mancanza di autostima ma nessuno sembrava preoccuparsi di trovare una cura.
E OGGI, A DISTANZA DI 40 ANNI, COSA È CAMBIATO?
Facciamo ancora parte del G7 essendo una delle sette nazioni più industrializzate al mondo, abbiamo il quinto surplus commerciale manifatturiero dopo Cina, Corea del Sud e Giappone, e in Europa siamo secondi solo alla Germania. Le nostre esportazioni non riguardano solo i ben noti prodotti alimentari del settore della moda, ma anche auto, motori, yacht, macchinari di alta precisione, nanotecnologie e farmaci. Il marchio Made in Italy è uno dei più iconici e ricercati al mondo. L’Italia è nei settori dell’industria il secondo paese in Europa per efficienza energetica nei processi produttivi, davanti a Francia, Spagna e Germania ed ha conquistato il primo posto nel mondo per l’utilizzo di energie rinnovabili. Questa attenzione alla sostenibilità ambientale si estende anche ad altri comparti; la nostra agricoltura è fra le più sicure al mondo e non abbiamo rivali per numero di imprese che operano nel mondo biologico. Lo scenario si ripete sul fronte dell’innovazione, la posizione italiana in termini di spesa in ricerca, ci vede al settimo posto dei Paesi OCSE e quarti in Europa. L’Italia è poi la culla della cultura e siamo molto forti in segmenti tradizionali che incrociano cultura e produzione, come il design: in Europa un designer su cinque parla italiano.
Eppure, in una recente analisi i cittadini di diversi paesi sono stati interrogati sullo stato dell’economia del proprio Paese e solo il 15% degli italiani ha espresso un giudizio positivo collocando così l’Italia al quartultimo posto della classifica dei 25 paesi considerati nell’indagine, preceduti da Polonia, Ungheria e Perù, paesi i cui fondamentali economici sono di molto più arretrati dei nostri ma dove l’opinione pubblica è animata da uno spirito decisamente più positivo.
Questo pessimismo ha conseguenze non trascurabili giacché le rappresentazioni apocalittiche che i media italiani danno della nostro economia diffondono, purtroppo, tra gli osservatori e gli investitori stranieri la pericolosa sensazione che il nostro paese si trovi in una crisi strutturale senza vie d’uscita.
La nostra sanità è stata classificata la migliore al mondo per qualità ed efficienza, a pari merito con la Francia, da tutti i più autorevoli organismi internazionali, quali l’Organizzazione Mondiale della Sanità, Bloomberg e il severissimo British Medical Journal, eppure in Italia si parla solo di malasanità e sono in molti a definirla “da terzo mondo”, senza avere ovviamente alcuna conoscenza diretta della situazione della sanità in altre nazioni progredite.
I giovani italiani hanno finalmente imparato a viaggiare e a spostarsi per cercare lavoro e, anche se il tasso di emigrazione è inferiore rispetto a quello degli altri grandi Paesi europei, è comunque il segno di una apertura verso il mondo moderno. Eppure in Italia la circolazione fisiologica dei “cervelli” viene vissuta come un dramma e paragonata all’emigrazione dei nostri antenati.
I media amplificano ogni notizia di crimini per cui anche se il numero dei reati in Italia è stabilmente in calo e siamo uno dei paesi più sicuri al mondo, aumenta tra i cittadini italiani la sensazione di paura e insicurezza.
L’ultimo rapporto annuale sulle prospettive, le aspettative e le convinzioni dei giovani di 68 diversi paesi, realizzato da Gallup, vede l’Italia ultima per speranza e terz’ultima per ottimismo, e si colloca tra i dieci paesi più infelici e pessimisti al mondo.
Insomma, a distanza di 40 anni, la percezione del paese visto dagli italiani è rimasta la stessa di allora; l’ottimismo scarseggia, specie tra i giovani, e non solo la fiducia nella politica o nelle istituzioni, ma soprattutto quella nell’Italia, nel suo futuro e nelle sue potenzialità.
Ma come può un popolo in grado di collezionare tante eccellenze soffrire di un tale complesso di inferiorità nei confronti delle altre nazioni e credere così poco in se stesso?
Non sarebbe ora di trovare un rimedio?
Non sarebbe finalmente ora di prendere coscienza che l’Italia non è solo il belpaese, custode del più ricco patrimonio culturale e artistico mondiale, ma anche una delle nazioni più industrializzate, innovative, produttive e creative del pianeta?
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