L’8 marzo 2020 il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha dichiarato la chiusura dell’intero Paese a causa dell’emergenza coronavirus, imitati dopo breve da quasi tutte le nazioni del mondo, con misure di lockdown più o meno simili.
Più di 3 miliardi di persone sono state rinchiuse in casa, con il divieto di uscire se non per motivi urgenti e indispensabili.
Da quel momento, le esistenze sono rimaste sospese.
Come in uno dei peggiori incubi distopici, le città hanno assunto l’aspetto di spettrali metropoli senza vita: strade deserte, saracinesche di negozi, bar e ristoranti abbassate, silenzio irreale rotto solo dalle sirene delle ambulanze, davanti ai supermercati lunghe file di persone distanti tra loro, dall’espressione spenta e rassegnata, con il volto coperto da mascherine, unica presenza di una umanità stravolta da una realtà che sarebbe apparsa impensabile fino a poche settimane prima.
Gli italiani, come metà dell’intera popolazione mondiale, hanno dovuto reinventarsi una vita all’interno delle mura domestiche.
Alcuni sono riusciti a trovarvi anche aspetti positivi, riscoprendo attività e interessi che non avevano potuto coltivare presi dalla frenesia del mondo che conoscevamo, e che non sarà mai più lo stesso.
Ecco alcune testimonianze di un periodo che ha cambiato le nostre vite.
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Susanna:

Come ho imparato a vivere ai tempi del coronavirus.
Sono nel pieno dei miei giovani sessant’anni, lombarda di nascita ma adottata nel corso della vita, da Toscana Liguria ed Emilia Romagna.
Nella mia giovinezza sono cresciuta a pane e Joan Baez. Ma anche Bob Dylan e Lucio Dalla.
Oggi abito a Milano nella città giardino di Milano 2, immersa in 4mila metri quadrati di parco tra alberi comuni e rari, imponenti, la cui provenienza ho imparato a conoscere da quando vivo qui. Cosi come ho imparato a familiarizzare con cigni, oche ciuffate, tabacchine, mandarine, che vivono nei tre laghetti che punteggiano il parco.
E stata una fortuna in questi tempi di quarantena aprire le finestre e vivere praticamente sulla terrazza immersa nel verde. Invece che in una strada grigia del centro. Privati come siamo stati di ogni libertà di movimento, sono stata obbligata in questi mesi interminabili a viaggiare con gli occhi nella natura, nei profumi e nei colori mai così vividi grazie all’ assenza forzata dello smog… L’ ho osservata, mi sono sentita parte di essa. Ho abbracciato alberi. Parlato non vista, coi fiori e foglie. Un balsamo. Una consolazione. Siamo tutti figli di questa terra con un’anima.

Il 21 febbraio é iniziato il mio isolamento, poiché la sera precedente ero stata ad un cocktail con circa 800 persone e due sere prima a teatro. Per la paura d’un ipotetico contagio, mi sono messa in quarantena volontaria. Dopodiché è stato un lento divenire nel quale a tutt’oggi siamo ancora immersi…
Mi sono dedicata con iniziale slancio e spirito di positiva rassegnazione, praticamente a ciò che hanno fatto in molti. La cucina. Gli hobby. Quindi alle mie poesie, alle mie tele e pennelli. Alla musica.
A riprendere in mano vecchi libri, per rileggere con nuovo spirito vecchi romanzi, provando nuove emozioni. Al fitness. Alle lezioni online di opera lirica e di outfit… Alle coccole amorose del mio micio Theodoro.
I giorni passavano e sono cominciate le mie ferite sul cuore. Realizzavo che un abbraccio era vietato, pericoloso. Che stavo schivando il passante, amico conoscente sul mio stesso vialetto. E lui schivava me, calcolando a mente una distanza di due metri. Proprio io che non ho mai avuto la passione dei numeri, mi sentivo improvvisamente bombardata ossessionata sommersa da questi. Ogni giorno cifre sempre più grandi in negativo. Perché si trattava di contagiati e di morti. Qui in Lombardia ne abbiamo avuti uno sproposito. Più che nella seconda guerra mondiale.
Lo smarrimento prendeva il posto della speranza e lo si cominciava a leggere negli occhi che affioravano dalle mascherine. Un assordante silenzio di comunicazioni. Solo furtivi sguardi e lunghe file di distanziati. Forzati. Placcati. Pilotati.
Ogni mattina dopo ormai notti insonni, mi alzavo sperando fosse tutto un sogno. Invece la realtà superava la fantasia. Ma mai sprovvista di speranza.
Realizzavo che avrei potuto non rivedere più i miei familiari. Mio figlio. La mia piccola nipotina Virginia. La mia mamma di 90 anni. I miei fratelli. Tutti sparsi in altre città chiuse come la mia, anche se meno pericolose.

Guardavo mio marito uscire di casa con guanti e doppie mascherine perché la sua azienda con codice Ateco non cessava di operare e non sempre lo smart working era sostituibile. Pensavo che anche uno di noi due dopo 50 anni di vita insieme, poteva dall’oggi al domani non rivedere mai più l’altro. E scrutavo ogni eventuale pallore, ogni suo starnuto, ne fa anche 10 di fila perché allergico.
Mi sono ritrovata a pregare.
Ho partecipato a tutti i flashmob dalle terrazze. Agli applausi, ai canti, alle schitarrate, all’accensione serali delle candele. La terrazza era diventata l’ unico mezzo per sapere che c’eravamo ancora tutti lá fuori, ancorché chiusi distanziati immobilizzati. Ma vivi!
Ho sentito che eravamo diventati un po’ più buoni, attenti, sensibili. Consapevoli. In una città sempre di corsa eravamo improvvisamente tutti più lenti. Immobili.
Poi i numeri aumentavano e gli slogan di speranza si affievolivano. Gli applausi dalle terrazze svaniti.
Ci sono immagini d’un vissuto, scolpite nella carne viva che si cicatrizzeranno così.
La macchina della vigilanza, i cui fanali rossi diventano sempre più piccoli sino a perdersi nella nebbia dei viali circostanti, che ripete in modo greve e ossessivo STATE A CASA.
I parchi giochi dei “bambini cancellati”, gli ” untori”, (??)… nastrati col nastro rosso e bianco. Impraticabili.
La preghiera del Papa da solo in mezzo a piazza s.Pietro, mai in vita mia vista vuota! Un’ immagine potente! Un momento di aggregazione intenso che ha accomunato i fedeli nel mondo. Quella sera é accaduto qualcosa…
La lunga fila dei camion militari che procede lenta nel buio, carichi di decine e decine di bare. Destinazione altrove, senza un ultimo saluto. Se n’è andato lo zoccolo duro della nostra storia.
Bocelli che canta Amazing Grace sul sagrato del Duomo di Milano. I grandi portoni verdi chiusi alle sue spalle, in una piazza vuota, nuda. Riempita di musica. Un atto d’amore verso l’umanità smarrita, impaurita arrabbiata, tuttavia ancorata alla speranza. Palpitante. Determinata a riaprire A riprendersi. A rivivere.
Il fischio delle ambulanze. Il rombo frammentato e tagliente degli elicotteri. Unici a graffiare il cielo di Linate. Mezzi di soccorso che si dirigono alla terapia intensiva da campo, allestita fuori del S. Raffaele. Un passo da casa mia.

Eppoi i profumi del pane nel forno, delle focacce, grissini e lingue di suocera; dello strudel. Unico dolce che mi cimento a realizzare con la sfoglia già fatta acquistata al supermercato, mischiati all’odore dell’alcool della varechina.
I video, le telefonate dei miei cari. I compleanni di famiglia festeggiati in virtuale. Mai questi strumenti digitali si sono caricati di così tanto calore.
I quarant’anni di mio figlio lontano. Non era mai accaduto! Così i 90 di mia madre. Dovevamo andare a Parigi con lei, noi tre figlie femmine.
Sono stati momenti di grande riflessione, di grandi intime emozioni, di pensieri ondivaghi tra il caso naturale, ancorché gravemente colposo del virus, al virus del complotto…
Non voglio più pensare a tutto questo, ma al senso della vita. Della nostra vita. Della mia.
Ho sperimentato la resilienza.
Quando tutto questo sarà finito voglio comprarmi quella gonna in vetrina, indossarla, allargare le braccia e fare la ruota fino a farmi girar la testa!
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Alessandra:


La nostra quarantena è iniziata piuttosto bene, io potevo continuare a lavorare da remoto con il mio contratto di consulenza all’ufficio legale della FAO et Jean Charles, che è un pianista senegalese di afro jazz, componeva, studiava musica classica e composizione, arrangiava canzoni di un suo vecchio zio che ha avuto un ictus, dandogli così voglia di riprendere a vivere e a cantare!!!

Nel tempo libero, il giardino era diventato un campo per sperimentare una traballante orticoltura da dilettanti allo sbaraglio, le lumache in particolare ci remavano contro, ma insomma, ci stavamo piuttosto bene in questa quarantena, innamorati e felici, quando a un tratto Jean Charles inizia ad avere prima mal di gola e poi una brutta febbre alta che non voleva passare.

Ansia e stupore! Siamo usciti solo tre volte a testa per fare la spesa con tutte le precauzioni! Non può essere Covid-19! Ma intanto la febbre cresceva e non si può fare altre che seguire il percorso Covid-19 quarantena in casa in attesa di tampone . E qui devo dire che il servizio sanitario della ASL 1 e’ stato impeccabile; due giorni dopo la segnalazione sono venute due dottoresse con la tenuta tipo Ghostbusters a farci il tampone, per fortuna poi risultato negativo. Era solo un brutto mal di gola.
Ma devo dire che i giorni passati in attesa del tampone e del referto sembravano non passare mai. Jean-Charles ha voluto suonare quel brano al piano per onorare coloro meno fortunati.
Ora tutto splende ancora di più e nel giardino il gelsomino è fiorito regalandoci il suo profumo inebriante che ci ricorda di gioire di ogni momento!
Flor:

Il mio nome è Flor, sono nata a Caracas, Venezuela il 13 ottobre 1953, fra poco compirò 67 anni, che mi portano più verso i 70, ahimè! Mi considero sia italiana sia venezuelana dato che sono arrivata in questo meraviglioso paese il 22 settembre 1982, all’età di 29 anni. É un po’ come vivere due vite perché sono due modi di vivere molto diversi.
Dall’ottobre 2015 sono in pensione dopo aver lavorato in una agenzia delle Nazioni Unite a Roma.

Dopo un breve periodo di depressione, poco prima di arrivare a 60 anni, su consiglio dello psicologo iniziai a prendere lezioni di fitness con un personal trainer. Fu una svolta nella mia vita. Quello che era iniziato come un modo per recuperare il peso forma diventò una passione. Non solo persi peso, allenarmi mi cambiò fisicamente e mentalmente, diventai più sicura e per la prima volta iniziai ad accettare anche i miei difetti. Devo ringraziare il personal trainer e i miei figli che mi hanno sempre sostenuta in questa scelta.
Dopo essere andata in pensione, passato un primo periodo di adattamento alla mancanza di impegni precisi, decisi di seguire dei corsi per poter allenare chi me lo chiedeva, senza il rischio di sanzioni. Non sapevo in cosa mi stavo imbarcando. Si è aperto un mondo tutto nuovo per me, dall’approfondire le poche conoscenze di anatomia che avevo, a studiare biomeccanica del corpo umano e biochimica. Cosi, mi sono messa a studiare seriamente, a seguire le ricerche sul campo, che mi appassionano. Ho conseguito la certificazione di personal trainer, trainer terza età e posturale. Ma questo è solo l’inizio perché è un campo molto interessante, vasto e vario, dove si può fare tanta ricerca.


Questa passione mi ha aiutato durante il lockdown, che ho trascorso a Castiglion Fiorentino in provincia di Arezzo. Ho un piccolo appartamento con un mini balcone che in condizioni normali va benissimo. Quanto mi sarebbe piaciuto avere un giardino!
Nonostante pensassi che stavo sopportando bene il periodo di chiusura non era così. All’inizio, come tutti si passava il tempo sui social, si cercava di far passare le giornate cucinando, mi allenavo ma non era lo stesso che in palestra e l’angoscia che non percepivo chiaramente ma che c’era non mi permetteva di concentrarmi.

La sera prima di cena giocavo all’aperitivo, così ho imparato a fare cocktails (mi vengono molto bene) Dormivo tantissimo ma contrariamente a quello che si può pensare non è un bene perchè è una forma di evasione e un sintomo di depressione.
I collegamenti in videochat mi mettevano tristezza. Cercavo di tirarmi su ma era dura, feci una gara di push-ups con amici e quello mi diede una spinta a reagire.

Mi sentivo tutti i giorni con i miei figli. Di solito non lo facciamo perché non c’è bisogno di sentirci per sapere che siamo presenti gli uni per gli altri. Ma in quel periodo avevamo bisogno di sentirci vicini.
L’angoscia della non-normalità persiste anche ora che non siamo più in lockdown. Detesto indossare la mascherina e rivorrei la mia vita di prima. Non so se è stato il virus a togliermela o se c’è la volontà di non farci più tornare alla normalità, alla libertà di movimento di prima.
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è stato un periodo che ha sicuramente cambiato tutti noi
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